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Intervista a TAMassociati

Industria – Due parole sulla quindicesima Mostra Internazionale di Architettura di Venezia curata da Alejandro Aravena…

TAMassociati – Dalla periferia al centro: Aravena è il Bergoglio dell’architettura e questa mostra propone un nuovo sistema di osservazione (intanto), auspicando una discesa a terra (prossimamente) con strumenti rinnovati. È una mostra che parla ad un pubblico più vasto perché (auspicabilmente) acquisti coscienza dell’importanza dello spazio in cui vive.

Industria – Il titolo della Biennale è emblematico: Reporting From The Front. Ma siamo davvero tutti al fronte e combattiamo per l’architettura sociale oppure la lotta si sta istituzionalizzando e –dopo questa Biennale– si sta trasformando in un dibattito da salotto radical chic?

TAMassociati – Credo che la diversità delle proposte e delle risposte portate in mostra rifletta la complessità del tema e del dibattito in corso. Ad Aravena va dato il merito di aver sollecitato un’efficace operazione di comunicazione (non diciamo marketing perché il termine potrebbe venire usato nella direzione che la tua domanda sottintende, ma crediamo non si debba avere alcun timore nell’usarlo in modo intelligente). Questa strategia ha portato sulla sua Biennale un’elevata attenzione dei media: sta ora a noi architetti usare questa opportunità per proporre nuove idee (su in salotto, come giù in strada) e a voi critici tenere l’asticella alta, con adeguata capacità di analisi. È una bella condizione a nostro avviso, molto vivace e promettente.

Industria – Questa Biennale ha dimostrato in ogni caso che un’altra architettura è possibile e che non esiste solamente il “parametricismo” dei tortelloni galattici. Ma come facciamo a trovare un compromesso tra la necessaria sperimentazione architettonica e la doverosa attenzione verso i temi sociali e sostenibili dell’architettura contemporanea?

TAMassociati – Dobbiamo iniziare a distinguere tra forma e architettura. L’architettura produce oggetti e processi in grado di incidere fortemente sul capitale umano che partecipa alla sua realizzazione: è una pratica complessa che si fonda sull’interazione dei saperi.

Forse una buona architettura è quella in grado di restituire più risorse di quelle necessarie per la sua costruzione: in termini di cultura, conoscenza tecnico-scientifica, coesione sociale, relazione di appartenenza, valore economico.

La ricerca formale è una componente del progetto architettonico, quella che forse ci colpisce maggiormente per il valore emozionale che apporta (positivo o negativo che sia), ma ogni opera umana, anche la guerra purtroppo, è un compromesso di mezzi e risorse volto all’efficienza. Questo per dire che la ricerca del compromesso è la vera sfida che ci deve interessare, non certo la produzione di “forme fantastiche”, che già l’immaginario cinematografico del ‘900, da David Griffith a Stanley Kubrick, ci ha ampiamente consegnato.

Industria – All’interno del Padiglione Italia –curato dal vostro gruppo TAMassociati– si respira un’aria nuova, distante anni luce dallo star system modaiolo dell’architettura globale e distante dalla retorica della nuova Tendenza fatta di disegni metafisici e collage. Queste distanze critiche rappresentano la chiave per comprendere il vostro “Taking Care” e sono alla base della progettazione del bene comune?

TAMassociati – Non sapremmo dire se si tratti di aria nuova, perché in studio la respiriamo da vent’anni ormai.

Col progetto Taking Care abbiamo provato a dare aria, aprendo il Padiglione Italia a giovani progettisti che stanno condividendo esperienze e percorsi simili ai nostri. Non siamo curatori di professione, siamo architetti sul campo, qualche volta anche sul fronte (quello vero, purtroppo) e abbiamo colto l’occasione per ragionare su una metodologia di lavoro, presentando opere realizzate come esempi.

Forse non siamo in grado di valutare per ogni progetto la “distanza” critica, perché ci siamo concentrati più sulla “vicinanza” critica che i progettisti selezionati sono stati capaci di produrre con le loro opere, riuscendo anche in condizione limite (di budget, di contesto, di rapporti istituzionali) a proporre soluzioni originali e di interesse per le varie comunità che hanno interagito con loro. Diciamo che abbiamo dato spazio a piccole prove di architettura; vedremo come e se in futuro sapranno rendere questa capacità a scale e complessità di maggiore rilevo. Noi speriamo di sì: il Padiglione Italia ci lascia con questo augurio.

Industria – I tre Padiglioni migliori della Biennale di Venezia 2016?

TAMassociati – 1. Perù con la Our Amazon Frontline propone un approccio multiculturale al tema della tutela del territorio e delle culture. L’allestimento è evocativo e rigoroso; la metodologia di intervento portata in mostra rappresenta un esempio da studiare e riproporre anche in altri contesti. 2. Riteniamo Solano Benitez uno dei migliori talenti della nostra generazione. Il Leone d’Oro è a nostro avviso decisamente meritato, pur mancando nell’allestimento proposto nel Padiglione Centrale quell’interazione con il paesaggio che è, a nostro avviso, uno dei tratti salienti della ricerca di Benitez. 3. “Dreaming of Earth” dell’artista coreana Jae-eun Choi (con Shigeru Ban) porta in mostra il progetto di un ponte sospeso in bamboo collocato nella zona demilitarizzata tra le due Coree. Un progetto leggero e profondo che abbiamo apprezzato molto.

Industria – I tre Padiglioni peggiori della Biennale di Venezia 2016?

TAMassociati – Nell’invito a partecipare alla mostra, Aravena proponeva di focalizzare l’attenzione su quelle frontiere dove si gioca la sfida del miglioramento della qualità dell’ambiente costruito e, di conseguenza, della qualità della vita delle comunità. Uno statement molto chiaro e diretto a cui alcuni padiglioni non hanno risposto con altrettanta chiarezza. La Biennale è un evento che in anni recenti sta registrando un crescente interesse da parte di un pubblico ampio e variegato. Riteniamo quindi che gli allestimenti non debbano parlare un linguaggio iniziatico comprensibile forse ai soli “addetti ai lavori”. Abbiamo apprezzato quindi quelle mostre capaci di coniugare la complessità del contenuto con la semplicità della narrazione.

Industria – Che ne pensate del Padiglione del Portogallo intitolato “Neighbourhood – Where Alvaro meets Aldo”, curato da Nuno Grande e Roberto Cremascoli? Qual è il legame critico tra l’architettura sociale di Álvaro Siza e l’eredità di Aldo Rossi?

TAMassociati – Il Padiglione del Portogallo è a nostro avviso uno degli eventi più interessanti della Biennale nel suo complesso. Álvaro Siza è il medium poetico attraverso cui i curatori hanno saputo raccontare con profonda sensibilità le storie di alcuni interventi residenziali progettati dal maestro portoghese ma soprattutto le storie degli abitanti che le popolano. Inoltre nel farsi motore del completamento dell’intervento di Campo di Marte a Venezia, il Padiglione portoghese avvia un’azione diretta di recupero di un pezzo di città colpevolmente rimasto in stato di semi-abbandono. L’intervento di Siza alla Giudecca è forse uno dei meno significativi della sua carriera e il tratto saliente della mostra non risiede a nostro personale avviso nel rapporto critico con l’opera di Aldo Rossi. Il focus è rappresentato invece dalla capacità di Nuno Grande e Roberto Cremascoli di coniugare, con il loro lavoro, racconto e impegno concreto, con partecipazione e senza retorica.

Industria – A Venezia è in corso una retrospettiva su Zaha Hadid. Cosa pensate della sua architettura?

TAMassociati – Pur essendo lontana dal nostro modo di interpretare l’architettura, a Zaha Hadid riconosciamo la coerenza del percorso e lo straordinario talento espresso soprattutto in quelle opere pubbliche consegnate alla collettività.

Industria – Patrik Schumacher, il nuovo direttore di Zaha Hadid Architects, ha stroncato la Biennale di Venezia 2016 in una recente video intervista rilasciata al Giornale dell’Architettura. Cosa rispondete a Schumacher?

TAMassociati – Che la censura è uno strumento che non appartiene alle società complesse.

La proposta di Patrik Schumacher di “chiudere” la Biennale è un ovvio paradosso che non fa il bene dell’architettura (varrebbe anche nel caso fosse lui il curatore). Una società produce l’architettura di cui ha bisogno, e la sollecita verso le soluzioni più necessarie.

Le istanze che Patrik propone (forma, spazio, tecnica) sono certamente corrette e legate al modo di produrre buone soluzioni di architettura, ma la sua critica sembra porre l’architetto in un ruolo di interfaccia che agisce solo come traduttore di programmi generati da “altri”, quando invece la profondità di campo e di analisi sarà la caratteristica delle reti neuronali che governeranno il futuro. Il vero paradosso è che proprio Patrik, dal suo ruolo di sperimentatore di complessità spaziali, immagini il sapere dell’architetto confinato in un piano 2D, come se abitasse la Flatlandia del romanzo di Abbott, mentre il mondo, e la società, evolve in direzioni imprevedibili. Credo che le forme del futuro nasceranno dalla comprensione di questi fenomeni e non siano prefigurabili con un approccio disciplinare univoco.

Industria – Secondo voi è finita l’epoca delle archistar e dell’architettura autoreferenziale? Oppure la critica modaiola e l’architettura cercano solamente di cavalcare in modo spregiudicato e cinico –oggi– la nuova onda anti star-system?

TAMassociati – Il successo sarà sempre una potente leva di azione e una legittima aspirazione insita in ogni attività umana. Ci saranno sempre star del cinema e star dei diritti civili: capiamo la natura della domanda, specie quando le due attività coincidono, ma non per questo necessariamente si elidono, né una buona campagna contro la fame nel mondo creerà mai un buona attrice o un buon attore. Detto questo, e tornando all’architettura, riteniamo che sia da evitare l’autoreferenzialità, perché isola la capacità creativa dal contesto in cui viene applicata (e questo non credo sia un bene per la nostra disciplina), quindi siamo propensi a usare un approccio laico e affatto ideologico nel dibattere il tema delle archistar; pensiamo che ci si debba concentrare sugli effetti che qualsiasi progetto (sia di archistar o meno) è in grado di produrre. La domanda è allora: quali effetti deve generare una buona architettura: formali, tecnologici, sociali, economici, finanziari? Sono molteplici i filtri con cui possiamo analizzare il valore di un progetto, e forse in questo risiede la specificità ed il fascino dell’architettura, che poi è la capacità di immaginare soluzioni di sintesi a problemi di natura complessa. Se davvero il campo sociale sarà il terreno di gioco, vedremo nei prossimi anni quali saranno le architetture (e gli architetti) “di successo”. Il punto che ci interessa, è che in questa gara la società sia sempre più interessata e aperta a dibattere e a valutare gli effetti e l’utilità che l’architettura è in grado di produrre.

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TAMassociati – Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso – http://www.tamassociati.org/

Tamassociati si basa su un’idea concreta: coniugare impegno civile e professione. È uno studio creativo a servizio delle istituzioni pubbliche, delle organizzazioni non profit e di quella committenza attenta ai valori di equità, sostenibilità, sviluppo dei beni comuni. Un’idea aperta e partecipativa del mestiere dell’architetto, che in oltre 15 anni di attività è stata messa in pratica in progetti di natura diversa: dagli spazi pubblici, alla cooperazione internazionale, all’abitare solidale, alla comunicazione sociale.

Tamassociati ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali, tra cui: Architetto Italiano dell’anno 2014, Zumtobel Group Award 2014, Premio Curry Stone Design Prize 2013, Premio Aga Khan per l’Architettura 2013, Medaglia d’oro Giancarlo Ius 2013, Medaglia D’oro all’Architettura Italiana 2012 – menzione d’onore categoria Architettura e Emergenza.

Tamassociati è il Curatore del Padiglione Italia alla XV Mostra Internazione di Architettura Biennale di Venezia 2016.

[ Intervista a cura di Marco Maria Sambo ]

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