Biennale Architettura Venezia 2016 - Copertina

Report Biennale Architettura, Venezia 2016 – di Marco Maria Sambo

La quindicesima mostra internazionale di architettura di Venezia curata da Alejandro Aravena porta finalmente alla ribalta le questioni sociali dell’architettura contemporanea, dopo anni di critica concentrata solamente sulle mode e sugli eventi, sull’esasperato formalismo, sul concetto di architettura uguale arte, eccetera eccetera.

Reporting From The Front cambia la prospettiva globale dell’architettura, riportandola alla sua essenza solidale: architettura costruita per la collettività, per migliorare la qualità della vita dei diseredati del pianeta Terra.

Assistiamo a un cambio radicale di rotta che porta il dibattito verso nuovi orizzonti: un cambiamento culturale che costringe i critici dell’architettura modaioli e positivisti (per i quali l’unica via –solamente ieri– sembrava essere quella del “parametricismo” di Patrik Schumacher) a riposizionarsi, recuperando questioni sociali che non hanno mai fatto parte del loro vocabolario.

Se ci pensiamo bene negli ultimi anni abbiamo rincorso le star dell’architettura (tanto è vero che ci siamo inventati il termine “archistar”: solo noi architetti potevamo essere così autoreferenziali); ci siamo anche dimenticati completamente di ragionare in modo serio sulla fenomenologia dell’architettura che porta al bene comune; ci siamo concentrati solamente sull’architettura come “evento” e non come “processo” sociale e culturale; ci siamo infine dimenticati totalmente dei costi dell’architettura per rincorrere l’immagine patinata e iconica delle nostre archistar. In sostanza, abbiamo parlato solo di forma, dimenticandoci di tutto il resto. La dinamica della forma è importante, certo, ma non è l’unica chiave di lettura del contemporaneo: questo sembra essere il messaggio positivo della Biennale 2016 che –nonostante le molte ipocrisie e i capelli iper laccati di Aravena– risulta decisiva, importante ed efficace per leggere il presente con occhi nuovi e progettare un futuro solidale per i nostri figli.

Entrando nello specifico, tra alti e bassi, la Biennale ha tre aspetti positivi e tre negativi.

Aspetti positivi:

1- Da un lato c’è la necessaria volontà di indagare con maggiore attenzione il bene comune, allontanandosi dai render autoreferenziali e dai tortelloni ipergalattici cui siamo abituati negli ultimi anni; affrontando anche la piccola scala e non solamente i progetti faraonici; riflettendo con intelligenza sulle risorse che l’architettura è in grado di restituire alla collettività: “cultura, conoscenza tecnico-scientifica, coesione sociale, relazione di appartenenza, valore economico” (cit. Tamassociati).

2- Appare evidente la volontà di spostare l’attenzione del dibattito di architettura verso territori nuovi e socialmente utili, da un punto di vista mediatico e materico: dall’approccio iconico patinato e inutilmente fuori scala (che attira il pubblico sulle riviste di settore online) all’elaborazione di organismi architettonici –anche di piccola entità– che migliorino realmente le condizioni dell’uomo e delle popolazioni ai margini dello sviluppo globale, migliorando lo spazio pubblico e il contesto urbano, con un attento uso di materiali poveri e dei sistemi costruttivi a basso costo.

3- Altro aspetto positivo è rappresentato dalle parole chiave che possiamo leggere passeggiando per la mostra: il miglioramento delle condizioni umane nei luoghi marginali del nostro pianeta; l’utilità dell’architettura nelle zone di guerra; la periferia come fulcro per comprendere il presente; il degrado urbano e le possibili rigenerazioni; l’innovazione architettonica come arma per diffondere il bene comune. Questi sono alcuni dei tag che rendono utile questa Biennale e che ritroveremo nel dibattito di architettura, per fortuna, nei prossimi anni.

Aspetti negativi:

1- Un primo aspetto negativo è costituito da quei padiglioni che non si sono adeguati (per incapacità o per volontà autoreferenziale) a questo nuovo spirito critico collettivo, rilanciando al contrario i temi modaioli dell’architettura come arte e addirittura rinunciando, in alcuni casi, a mostrare l’architettura stessa, credendo forse di essere a una Biennale d’Arte.

2- Un secondo aspetto negativo sembra essere rappresentato da un eccesso di zelo nel mostrare gli elementi costruttivi: per cui ci si dimentica in alcuni casi di far vedere che l’architettura è –in realtà– un organismo completo e non solamente una sommatoria di frammenti; un organismo che vive ed è inserito in un contesto urbano.

3- Infine, uno degli aspetti critici di questa Biennale è che, per essere molto radical, rischia talvolta di scadere nel radical chic: questo emerge non solamente dai capelli iper laccati di Aravena e dalle foto iper patinate con Paolo Baratta, ma soprattutto dalla

mancanza di qualsiasi forma di antagonismo all’interno di una mostra che poteva essere, in realtà, davvero rivoluzionaria. Sostanzialmente, tutto sembra essere molto istituzionale e politically correct, per cui ci si dimentica completamente di quelle realtà non allineate che producono cultura e contribuiscono alla positiva complessità critica dell’architettura contemporanea

(su Industriarchitettura, Saverio Massaro affronta questo tema della “dimenticanza” ragionando anche sul Padiglione Italia).

Scendendo nel dettaglio dei vari padiglioni, troviamo comunque molte belle sorprese passeggiando per questa quindicesima mostra internazionale di architettura.

Elementi positivi sono presenti ad esempio all’Arsenale, dove ci attende un enorme plastico azzurro che ci mostra il lavoro di BeL Architects in Germania: si tratta di un’interessante riflessione sulle tipologie in architettura, inserita in un contesto urbano; l’architettura non è icona, ma è frammento cittadino che costruisce benessere collettivo; l’architettura è quindi parte di un meccanismo virtuoso, con le strade, le piazze e il background culturale degli abitanti. Insomma, architettura per le persone e per la città.

Sempre all’Arsenale appare poetico lo spazio con le luci che filtrano dall’alto e che vanno a illuminare le scalette di legno, simbolo di Reporting From The Front. Un aspetto simbolico importante: il nuovo fronte dell’architettura sociale viene illuminato, con semplicità e con forza immaginifica (anche se la Biennale non è realmente radical, l’immagine è comunque poetica).

Proseguendo la camminata all’Arsenale sembra interessante il lavoro di ADNBA che ci mostra, con tanto di plastico, come combattere il peso dell’ottusità nel mediocre mondo immobiliare (questi i termini usati per descrivere il lavoro); ed è ottima anche la riflessione del padiglione sloveno curato da Dekleva Gregoric Architects che costruisce una libreria in legno all’interno della quale troviamo libri di architettura. Ragionamento interessante che ci riporta anche qui a un aspetto simbolico, come se il dibattito sull’architettura contemporanea rappresentasse la primaria necessità per costruire, in un secondo momento, architettura di qualità; il tutto inserito in un contesto povero fatto di legno e molte belle idee.

È sicuramente da segnalare all’Arsenale il padiglione Italia “Taking Care” curato da TAMassociati (su Industriarchitettura, la nostra intervista a TAMassociati). Qui si respira un’aria nuova, distante dalle icone dell’architettura modaiola ipercostosa e fuori scala; distante anche dall’accademia che rischia di ridurre il dibattito sull’architettura contemporanea a uno stucchevole scontro tra Tafuri e Zevi, volando basso e con lo sguardo perennemente all’indietro, con torcicollo culturale cronico. Infine il padiglione Italia sembra essere distante, sia lodato il cielo, dalla nuova Tendenza che trasforma tutto in disegni metafisici e collage astratti (ricordiamo ancora perplessi, nella comunque buona curatela di Cino Zucchi per il padiglione Italia della quattordicesima edizione della Biennale nel 2014, il clamoroso scivolone con la parete dedicata alla quadreria metafisica con le opere dei maggiori esponenti della nuova Tendenza in Italia, cosa che rischiava di far scadere culturalmente l’intero lavoro curato da Zucchi).

La formula di Taking Care è, al contrario, semplice ed efficace, alla ricerca del bene comune e delle possibili strade, concrete, per raggiungerlo. Il tentativo è quello di trovare, anche attraverso la piccola scala, le qualità dell’architettura in grado di restituire qualcosa alla collettività e non solamente una bella forma.

In una cornice grafica lievemente costruttivista e legata al mondo del fumetto, i TAMassociati strutturano un percorso che si snoda attraverso tre concetti fondamentali: pensare, incontrare, agire. L’allestimento dei box in legno è leggero ed elegante e consente di passeggiare osservando idee e progetti. I box sono formalmente dinamici e  sono sospesi su piedini metallici, cosa che accentua la leggerezza dell’intervento. La terza sezione, “Agire”, moltiplica le connessioni del bene comune con i box dedicati: Legality Box, Health Box, Green Box, Sport Box, Culture Box. Intelligente l’idea di mostrare all’interno di ciascun box un’associazione di riferimento (come ad esempio Legambiente per il Green Box, alla faccia dei detrattori perennemente anti-ambientalisti).

Sono solamente due le note negative di questo padiglione Italia: la prima è rappresentata dallo spazio fotografico “Italogramma” che ci accoglie con la mega foto della prima manifestazione nazionale del Partito Democratico a Roma nel 2008, cosa che avrà di certo fatto felici Renzi e Franceschini all’inaugurazione ma che rende troppo istituzionale questa sezione che poteva essere, vista la qualità delle foto, assai interessante; il secondo aspetto negativo è rappresentato dal fatto che manca il mondo dell’antagonismo, di chi non è allineato. Ma questa è una mancanza, come dicevo prima, dell’intera Biennale che non prevede, nonostante il titolo “Reporting From The Front”, esperienze culturali “altre”, al di fuori degli schemi, e che quindi esclude de facto tutto ciò che è al di fuori di una possibile istituzionalizzazione culturale. In ogni caso –e nonostante la mega foto del Partito Democratico– il padiglione Italia è ottimo e vale la pena di visitarlo ripetutamente.

Arriviamo ai Giardini della Biennale. Anche qui ci sono diverse sorprese positive, ma ci sono anche diversi scivoloni.

Ottimo il padiglione spagnolo intitolato “Unfinished”, curato da Carlos Quintans e Iñaki Carnicero e premiato anche con il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale (su Industriarchitettura, l’articolo di Graziella Trovato sul Padiglione Spagnolo). La Spagna mostra la crisi economica e le possibili soluzioni progettuali per uscirne. Il non finito sembra efficace perché permette di ragionare su diversi aspetti dell’architettura contemporanea, dalla crisi al progetto, dal degrado alla valorizzazione. L’allestimento è multiforme, con i pannelli in acciaio sospesi nella stanza principale che mostrano fotografie del degrado urbano, sociale e abitativo e che ci proiettano nel tema della Biennale facendoci vivere il “fronte” spagnolo. C’è poi uno sguardo interessante sul panorama attuale dell’architettura spagnola che, nella sua sobrietà, riporta il dibattito alla qualità della professione in Europa e nel mondo, lasciando a casa i linguaggi iconici e autoreferenziali delle archistar.

Il padiglione del Belgio ai Giardini è sicuramente tra i migliori dell’intera Biennale e riesce a coniugare elementi costruttivi, architettura e città. Un plastico bianco con un frammento urbano mostra chiaramente che l’architettura non può essere slegata dal contesto urbano nella quale si inserisce e che le riflessioni urbane sono determinanti per costruire buona architettura e buone città. Gli studi Architecten De Vylder Vinck Taillieu, Doorzon Interieurarchitecten e il fotografo di architettura Filip Dujardin costituiscono il team BRAVOURE che ha curato il padiglione. La particolare attenzione al tema della residenza rende per altro credibile l’architettura nordica ed esalta la riflessione del Belgio per questa quindicesima edizione della Biennale.

Altre note positive ai Giardini sono rappresentate da: Lan Architecture con le unità abitative a Begles in Francia; Aires Mateus con i suoi giochi volumetrici buio-luce; Milinda Pathiraja in Sri Lanka; Andrew Makin and Asiye Etafuleni in South Africa, dove città e periferia del mondo vengono analizzati con grande attenzione, con fotografie e mega plastici urbani che ci riportano ai temi urbanistici che sono alla base di qualsiasi ragionamento architettonico e che sono puntualmente snobbati dalle mode che vogliono solo architettura che si inserisca bene nel mercato globale.

Un po’ defilato (probabilmente per scelta mediatica) è il padiglione dedicato a Renzo Piano e al suo gruppo G124 che si occupa di periferie. Quella del più grande architetto italiano rimane comunque una buon esposizione, sobria, una sorta di laboratorio continuo con un tavolo quadrato al centro e le pareti bianche piene di idee e progetti. Seduti su quelle sedie, intorno a quel tavolo osservando i disegni, sembra di stare nella stanza del senatore a vita e te lo immagini quasi sbucare da un momento all’altro con il suo sorriso e il suo inconfondibile aplomb. In sostanza, Renzo Piano è defilato, con eleganza, ma c’è sempre. È una figura ormai istituzionale e l’dea delle istituzioni che lui riesce a dare è, per fortuna, pacata e concentrata sulla dimensione del “fare” più che su quella, stucchevole e tipica della politica italiana, del parlare (spesso a vanvera).

Un altro ottimo padiglione è quello della Danimarca, con ponteggi pieni zeppi di plastici di architettura. Qui sembra di stare a un esame di progettazione architettonica con gli studenti (alcuni molto bravi) che mostrano i propri lavori. Anche questa è la dimensione del “fare”, importante in questa Biennale più della dimensione del “mostrare” con render fighetti e con immagini molto utili alla comunicazione dell’architettura e poco utili al raggiungimento del bene comune.

Anche quello della Corea –sempre ai Giardini– è un padiglione ben curato ed efficace, con riflessioni sulla città, sull’architettura tipologica, sull’innovazione e sugli inserti architettonici in grado di modificare positivamente la realtà della metropoli contemporanea.

Attraversando il ponticello dei Giardini, troviamo altre sorprese positive: l’Egitto, con le riflessioni tipologiche sospese grazie all’ottimo allestimento all’interno di una camera scura, con pareti nere, con disegni e architetture bianche, inserti urbani, immagini di architettura in trasparenza stampate su vetro; la Grecia, ottimo padiglione, con parete di lavagna per disegnare e scrivere idee, anfiteatro in legno per sedersi, urban block, tipologie pubbliche e residenziali, con ragionamenti su Urban Crisis, Space As Commons e Refugee Crisis.

PESSIMI

Il padiglione degli Stati Uniti –pur di non allinearsi al manifesto sociale di Reporting From The Front– scivola rovinosamente ai Giardini della Biennale e cade nella trappola autoreferenziale delle forme pacchiane e kitsch; probabilmente per distinguersi dagli altri padiglioni (atteggiamento tipico dell’autoreferenzialità). I risultati sono però deprimenti e culturalmente poco rilevanti. Quindi, se ci riuscite, vi consiglio di vedere il padiglione USA per massimo 10 secondi, correndo con le mani tra i capelli e con il golf invernale perché hanno l’aria condizionata che avvicina l’ambiente al polo nord.

La Svizzera, con Incidental Space, ci mostra un meteorite galattico rendendo evidente la totale assenza di architettura: probabilmente i curatori pensavano di essere alla Biennale Arte.

Il padiglione svizzero è senza dubbio l’icona negativa dell’intera Biennale ma proprio per questo è fondamentale visitarlo per capire che l’architettura non è arte; e bisogna osservare attentamente questo padiglione per comprendere –nel fallimento di questa esperienza curatoriale– quanto si sbagliano quei critici che pensano all’architettura solamente come gesto artistico e iconico.

Insomma questo meteorite (perché di meteorite si tratta, non è un modo scherzoso di definire qualcos’altro) non convince affatto. Si tratta quindi di uno spazio completamente sprecato, inutile.

Anche la Russia scivola rovinosamente e cade, mostrando una pomposa immagine di Lenin in salsa pacchiana, con statue sgangherate che fanno trionfare kitsch e cattivo gusto.

La Gran Bretagna porta all’esasperazione il visitatore già stremato per la lunga camminata culturale, a causa (anche qui) di una totale assenza di architettura; con una porta scura retrò e reazionaria –con tanto di pomo dorato– che accoglie i visitatori che vogliano farsi del male entrando…

Per fortuna lì vicino c’è l’Australia che non vuole assolutamente mostrare architettura contemporanea (poco male perché siamo sfiniti) ma che almeno costruisce una piscina nella quale rinfrescarsi. Idea simpatica ma del tutto inutile.

AND THE WINNER IS

Padiglione del Portogallo: “Neighbourhood – Where Alvaro meets Aldo”, curato da Nuno Grande e Roberto Cremascoli. È sicuramente il migliore di questa edizione della Biennale Architettura. Il padiglione è letteralmente inserito in un cantiere, tra gli spazi costruiti delle residenze di Campo di Marte progettate da Siza nel 1985 alla Giudecca. Si tratta di una zona di Venezia culturalmente molto vivace, quasi simbolica, dove i residenti partecipano attivamente alle attività di quartiere.

Il padiglione presenta con grande profondità critica il legame tra l’architettura sociale di Álvaro Siza Vieira e le persone che vivono realmente quell’architettura, tutti i giorni, persone in carne e ossa, non classificabili come icone in una rivista fashion.

Vengono esposte diverse opere di edilizia sociale del maestro portoghese con i suoi interventi a Venezia, L’Aia, Berlino e Porto. All’interno di questo cantiere aperto e solidale, numerosi video mostrano il rapporto tra Siza e gli abitanti; mostrano disegni e progetti; mostrano interviste; mostrano la vera essenza dell’architettura, ideata e costruita per la collettività. Il Padiglione del Portogallo dimostra sostanzialmente che si può fare ottima architettura senza rinunciare agli aspetti sociali che determinano la grandezza e l’importanza civile di una professione nobile, necessaria e importante come la nostra. Sullo sfondo emerge l’eredità di Aldo Rossi, per definire nel 2016 una nuova architettura della città. In quest’ottica il tema della residenza diventa cruciale per definire il futuro delle nostre metropoli.

In sostanza, il senso del padiglione del Portogallo sembra essere questo: parlare di architettura con semplicità e spessore autentico, in un cantiere e senza filtri patinati, attraverso progetti, plastici, frammenti fotografici e video; in un perenne e partecipato confronto con chi vive i luoghi e respira tutti i giorni quell’architettura. Perché in fondo l’architettura –come ci insegna questo bellissimo padiglione– è davvero un bene comune.

di Marco Maria Sambo [ fotografie di MMS ]

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