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Otto punti per rilanciare l’architettura in Italia – di Alessandro Melis

Come diceva Lewis Mumford in “The Brown Decades”, l’architettura rappresenta ciò che è nell’animo dei popoli. Partendo da questa considerazione e senza soffermarsi troppo sulle implicazioni storiche (arcinote), non ci sono speranze di rilancio dell’architettura senza la ristrutturazione del paese anche nei settori apparentemente distanti dalla nostra disciplina: il sistema politico, il sistema industriale, l’amministrazione pubblica, l’educazione e la ricerca. Storicamente l’architettura, più di altre discipline, risente delle condizioni al contorno.

1 – Rifondare l’Università

Considerando quanto detto, al primo punto di una ipotetica agenda ci potrebbe essere la ristrutturazione (rifondazione?) del sistema universitario, la punta dell’iceberg delle condizioni al contorno.

L’unica riforma universitaria necessaria sarebbe la sua internazionalizzazione e la sua radicale trasformazione in senso anglosassone nei contenuti, nella ricerca, nei meccanismi di concorso, nella valutazione delle prestazioni.

Scopro l’acqua calda dicendo che nessuna riforma è possibile: canis canem non est. Inoltre siamo 60 milioni, con capacità intellettuali nella media, per cui l’eccellere di alcuni di noi sarà come sempre la foglia di fico per dimostrare che anche le nostre università sono buone.

Si tratta quindi di un esercizio virtuale: andare all’estero resta l’unica opzione concreta.

2 – Zero volume

Disponiamo di un patrimonio di edifici e di condizioni climatiche e geografiche eccezionali. Non solo per il valore storico ed artistico (certamente rilevantissimo) dei  monumenti, ma anche per l’indotto turistico che non sempre è stato sfruttato in modo lungimirante. Quei monumenti si devono alle qualità dei materiali e delle tecniche costruttive di cui siamo stati maestri per centinaia di anni. Il tessuto compatto fatto di edifici di grande qualità dal punto di vista della prestazione, del comfort e del ciclo di vita, è il punto di partenza su cui costruire un modello di sviluppo.

La trasformazione e lo spostamento dei volumi all’interno di tessuti urbani sempre più compatti e densi sono la chiave della professione in futuro.

Nonostante l’aumento demografico previsto nei prossimi trent’anni, l’Italia potrebbe diventare la prima nazione a restringere le linee perimetrali delle proprie città e ad incrementare le superfici coltivabili. Intorno a questa ipotesi si potrebbero sviluppare nuove competenze e fare scuola.

3 – Energia + griglie urbane intelligenti

Basso impatto o zero energia sono risposte insufficienti. Il tessuto urbano dovrà essere in grado, da solo, di generare tutta l’energia pulita necessaria a soddisfare ogni bisogno, di conservarla e di distribuirla in modo intelligente.

Le tecnologie avanzate, come il fotovoltaico ad alta resa e le infrastrutture dotate di sensori ed attuatori in grado di comunicare alle macroscale sono strumenti indispensabili che richiedono nuove competenze. Anziché considerarle competenze ingegneristiche potremmo cominciare a rilevarne l’impatto a livello creativo e formale.

4 – Resilienza

Il rapporto tra tessuto urbano e troposfera deve essere reinterpretato in chiave di resilienza intesa come reazione positiva al cambiamento climatico. Pertanto una radicale riconfigurazione spaziale dell’ambiente costruito è necessaria per invertire la tendenza degenerativa e ad alta intensità energetica della città. L’architettura non definirà più un oggetto, unico e riconoscibile, ma una serie di paesaggi ibridi generati da specifiche variazioni della superficie urbana, anche attraverso processi autopoietici di adattamento a condizioni ambientali estreme (inondazioni, desertificazione, terremoti ecc).

5 – Strumenti digitali e nuovi strumenti espressivi

Siamo nel pieno di una rivoluzione in architettura. Ogni rivoluzione ha richiesto nuovi strumenti di espressione e ha dovuto confrontarsi con una maggioranza di persone che si oppone a questa necessità. Ma in architettura il consenso immediato non è mai stato garanzia del risultato.

Nuove tecniche di rappresentazione, tecnologie intelligenti e strumenti digitali avanzati diventeranno essenziali per lo sviluppo di una disciplina che si baserà essenzialmente sull’analisi di scenario futuro.

6 – Eteronomia dell’architettura

Ai fini dello sviluppo positivo, e quindi in chiave strategica, se quanto detto finora è vero, il rilancio dell’architettura dipende dalla eteronomia della disciplina intesa come capacità di sviluppare conoscenza e ricerca in ambiti fino ad oggi ignorati dagli architetti. La critica più frequente a questo approccio è che così facendo si trascura l’ambito più creativo e socialmente rilevante della progettazione. Trovo che sia un punto di vista sorprendente dato che la grande tradizione architettonica italiana si è sempre fondata sulla poligrafia. Ogni volta che ce ne siamo allontanati, come adesso, sono cominciati i problemi. Considerare certe discipline solamente come ricerche specialistiche, significa non rilevarne l’importanza in chiave strategica.

Climatologia, fluidodinamica, biologia, agronomia saranno strumenti per superare il concetto di architettura fatta di vuoti e di pieni, a prescindere dalla forma che gli si vuole attribuire. Progettare significherà anche studiare le interazioni dei gas che si espandono nell’atmosfera. Il concetto di densità variabile dei fluidi si sostituirà alle astrazioni e alla rappresentazione tradizionale di materia e spazio.

7 – Ruolo strategico

Per il rilancio dell’architettura è indispensabile recuperarne il ruolo strategico. Pensare che l’architettura debba dare una risposta ai bisogni cristallizzati nella società attuale, significa rinunciare al suo ruolo propulsivo.

8 – Rifondare la terminologia in architettura

L’ottavo punto è una sintesi degli altri. Se prima era di moda la sostenibilità, adesso fa molto chic essere ostili all’ambientalismo, a termini come smart ed ecocompatibile. In genere la critica presuppone, evidentemente ignorando il contesto in cui certe parole sono state coniate, che vi sia una disattenzione per il fattore umano. Chiamatela architettura “del cosa vi pare”, basta che, a parità di comfort e di risposta ai bisogni primari e secondari dell’uomo, questa architettura sia in grado di generare più energia di quanto ne consumi, si possa interfacciare con le infrastrutture del sistema urbano in modo da minimizzare gli sprechi (spazio, energia, acqua, cibo), che il suo ciclo di vita sia il più lungo e virtuoso possibile, che possa contribuire all’aumento della produzione del cibo e sia capace di adattarsi a condizioni climatiche sempre più estreme.

I numeri sono importanti: circa il 60% delle emissioni di CO2 dipendono dal modo in cui gli architetti hanno pensato l’architettura delle città negli ultimi 100 anni.

Le conseguenze di questa progettazione costituiscono oggi la principale sfida alla sopravvivenza stessa della razza umana. Come possiamo dunque pretendere che chi si è reso artefice di questa condizione possa insegnare alle nuove generazioni come fare architettura? Per questa ragione credo che sia fondamentale che le generazioni future mettano in discussione qualsiasi cosa venga loro insegnata. Le visioni sono più importanti della pratica professionale consolidata che ha invece contribuito a rendere l’architettura la principale sfida alla sopravvivenza umana.

Alessandro Melis

[Immagine di copertina: “Landed +” ©Alessandro Melis]

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