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Lo spazio pubblico e la qualità delle relazioni – di Fabio Briguglio

La politica e le arti non fanno sistema e l’architettura, marginalizzata dai disfunzionali e svilenti parametri economici del metro quadro e della cubatura, privata del ruolo sociale che le compete, riesce a manifestarsi solo in maniera puntuale e sporadica, per punteggiare desolanti agglomerati di insensatezza urbana.

Declinazioni elitarie della cultura e obsoleti modelli di gestione della città contemporanea, ormai satura di vuoti di senso, hanno trascurato in maniera imperdonabile la sfera delle relazioni abdicando in favore delle tecnologie della comunicazione, talmente pronte a captare i mutamenti da farsene portatrici e paradigmatico strumento.

Riportare alla scala della prossimità fisica gli individui e le loro relazioni è la sfida che la città contemporanea deve assumere per aspirare ad essere davvero smart.

Lo sanno bene gli amministratori di città come Bilbao, Marsiglia, Barcellona, Copenhagen, solo per rimanere in Europa, che nelle rispettive strategie di rigenerazione urbana hanno massicciamente investito sullo spazio pubblico riconoscendo nel miglioramento della qualità delle relazioni un fattore determinante per il riequilibrio sociale e per la percezione della felicità.

È evidente come in queste città europee sia stato preso seriamente in considerazione l’assunto di Zygmunt Bauman, secondo il quale lo svuotamento dello spazio pubblico ha contribuito ad accentuare negli individui lo scollamento tra la condizione de jure e la condizione de facto, riconoscendo nei luoghi votati alla condivisione e alla convivialità un importante indicatore di praticabilità della democrazia.

Difficile stilare una classifica degli spazi pubblici nel mondo. Spesso gli esempi maggiormente virtuosi sono i meno vistosi e meno pubblicati. D’altro canto, le qualità intrinseche di questi luoghi votati alla socialità vanno individuate nella sensibilità delle metodologie che li hanno generati piuttosto che nella compiutezza formale.

Esempi ampiamente celebrati, come il Miroir Ombriere di Norman Foster a Marsiglia, ed altri meno noti e mimetici, come i molteplici “salotti all’aperto di Bilbao”, sono comunque significative testimonianze della centralità del ruolo dello spazio pubblico nel processo evolutivo della città contemporanea.

E l’Italia? Coerentemente con l’immobilismo che la contraddistingue, fatte le dovute eccezioni per le buone pratiche di progettazione urbana sostenute da poche avvedute amministrazioni comunali, è rimasta ovviamente a guardare senza trarre particolari insegnamenti né prendere iniziative significative, capaci di dare reale supporto a strategie culturali strutturate di medio e lungo termine.

Da noi hanno avuto più seguito i fallimenti dei successi. È stato il cattivo esempio a fare scuola ed esperienze illuminate come quella di Adriano Olivetti, capace già oltre mezzo secolo fa di conciliare in una visione urbanistica unitaria solidarietà sociale e profitto, produzione industriale e cultura, sono rimaste lettera morta, rimpiante testimonianze da celebrare di tanto in tanto in tavole rotonde e convegni da requiem.

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