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Intervista a Gabriele Niola

Gabriele Niola, critico cinematografico e video ludico che collabora con Wired, MYmovies e BadTaste, ci accoglie nella sua piccola casa romana, moderna, pareti e librerie bianche, piena di film e videogiochi, poster giganti, chitarre elettriche.

Industria –  Tra un cinepanettone e l’altro, come sta l’industria del cinema in Italia?

Gabriele Niola – Intendi la parte produttiva, cioè l’industria cinematografica da un punto di vista economico?

Industria –  Da un punto di vista economico e culturale…

Gabriele Niola – Da un punto di vista economico l’industria del cinema non sta per niente messa male. All’inizio del 2000 stavamo messi male, molto male, ma tutta una serie di politiche dagli anni 2000 a oggi hanno portato non solo a una produzione più concreta –facciamo cioè più film che vanno bene al botteghino, cosa fondamentale– ma anche a conquistare un certo pubblico: la cosa fondamentale, per come sta messo il cinema italiano in questi anni, è quella di conquistare il pubblico giovane. All’inizio degli anni 2000 si faceva molto bene perché ci fu un’ondata di cinema che viene definita di “giovanilista” –termine peggiorativo ma in realtà spesso non era affatto male– con in testa “Tre metri sopra il cielo” e molti altri che hanno fidelizzato moltissimo creando anche una nuova classe di ottimi registi e sceneggiatori. Poi si è smesso di farli. Le nostre quote –perché la salute si misura in quota: quanto dell’incasso di un anno in percentuale sta al cinema italiano, quanto al cinema americano, al cinema francese, eccetera eccetera– sono arrivate tre anni fa addirittura al 30%. Il 30% è tantissimo, considera che i francesi che guardano più film in tutto il mondo hanno il 40%, gli inglesi hanno l’11%, gli spagnoli hanno il 12%… I tedeschi non arrivano neanche al 10%. Per cui è andata benissimo.

Stiamo anche benissimo con il cinema d’autore. È dal 2008 che ogni anno, regolarmente, vinciamo qualcosa nelle principali manifestazioni nel mondo del cinema: Palme d’oro, Orsi d’oro, Leoni d’oro, Oscar. Abbiamo sempre vinto qualcosa, continuamente. E questa cosa va avanti. L’ultimo premio è l’Orso d’oro per “Fuocoammare”. Quindi benissimo, facciamo film belli, facciamo film che piacciono.

Abbiamo avuto qualche piccolo problema gli ultimissimi anni, quattro o cinque anni, sempre con il pubblico molto giovane che è stato di nuovo abbandonato ed è per questo che si comincia a vedere “Il ragazzo invisibile”, “Lo chiamavano Jeeg Robot” eccetera, film che vanno a colmare sostanzialmente un vuoto. È una cosa fantastica, e parlo adesso non come critico ma come spettatore. Nessuno se lo aspettava.

Industria –  “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, con grandi attori come Claudio Santamaria e Luca Marinelli (film che ha sbaragliato al David di Donatello 2016); “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone;  “Non essere cattivo” di Claudio Caligari (anche questo con Luca Marinelli) e molti altri. Possiamo parlare di una rinascita del cinema italiano d’autore?

Gabriele Niola – Devo dire che secondo me non è mai morto. Poi sono discorsi diversi. Da un lato Garrone è un autore internazionale:  “Il racconto dei racconti” è un prodotto non solo italiano, è internazionale, con attori internazionali. Un po’ come fanno Tornatore con “La migliore offerta” o Salvatores con “Educazione siberiana”. Si cerca cioè di fare dei prodotti mondiali, cosa intelligentissima.

“Non essere cattivo” è stata una produzione incredibile. L’ha prodotto Mastandrea, un autore che nessuno voleva produrre, si pensava che sarebbe andato male e invece non è andato male per niente, un atto d’amore, è venuto un bel film. Io ad esempio ero convinto che il film sarebbe stato brutto, perché solitamente quando fanno fare l’ultimo film a un autore che non fa film da decenni, in genere è un disastro. Invece è un film bellissimo.

Infine “Lo chiamavano Jeeg Robot” è il caso più eclatante di tutti. Per prima cosa è stato amato dalla critica che lo ha visto al Festival di Roma, con il 100% di critiche positive, cosa rarissima, anche per l’effetto sorpresa. Due: è stato amato dai fan, andando a Lucca e nei posti dei “fumettari”, film amatissimo. Tre: è andato benissimo anche al botteghino: sognavano di fare un milione e mezzo e adesso sono vicini a quattro milioni. Quarta cosa: ha vinto ai David. Il David di Donatello è l’industria stessa, sono 1900 votanti, una valanga. Sono produttori, distributori, attori, registi, è il “sistema” e questo sistema, in maniera compatta, ha votato per “Lo chiamavano Jeeg Robot”.

Mainetti era convinto –dopo aver ricevuto le molte nomination– che sarebbe andata come con “Smetto quando voglio”, film che ebbe tantissime nomination ma che alla fine non vinse niente, come a dire “bravo ti diamo una pacca sulla spalla ma adesso vai a giocare che qui facciamo cose serie”…

Industria –  Invece Mainetti ha sbaragliato al David…

Gabriele Niola – Sì, ed è una indicazione incredibile. È l’indicazione del fatto che vogliamo fare questa roba qua, vogliamo farla tutti quanti e siamo tutti d’accordo. A me è piaciuto molto, anche se ha vinto premi che poteva anche non vincere. Ma è proprio l’idea di questo messaggio, un messaggio molto chiaro: non fare vincere Sorrentino che solitamente avrebbe vinto perché c’è una certa sudditanza psicologica. E non far vincere Caligari, un maestro che ci ha lasciati. Hanno poi dato i premi tecnici a Garrone ed è giustissimo. Ma veramente tutti si aspettavano un altro esito per la serata del David, anche io mi aspettavo un altro esito. Ed è un esito incredibile…

Industria –  Che ne pensi de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino?

Gabriele Niola – È un film bellissimo. Ho notato però che si è creata una violenza molto forte intorno a “La grande bellezza”…

Industria –  E per quale motivo secondo te?

Gabriele Niola – Pensa che questo l’ho chiesto allo stesso Sorrentino e neanche lui lo sapeva. Secondo me perché influisce molto il paratesto, tutto quello che accade intorno a questo film: il parere degli altri, l’Oscar, il fatto che viene giudicato perché ammantato da altri di valori che magari non gli appartengono come ad esempio il “film rappresentante dell’industria italiana” eccetera eccetera. E se non ti piace cominci a odiarlo sempre di più. Poi è un film che non ha compromessi, un film pomposo, molto patinato, non è certo un film cerchiobottista, va in una direzione e ci va a tutta forza…

Industria –  Ma è davvero un grande film che meritava l’Oscar oppure è solamente una meravigliosa sequenza di suggestioni visive, di immenso livello fotografico, ricucite con maestria e raffinata sensibilità artistica?

Gabriele Niola – Basta questa definizione, non è in contrapposizione con la grandezza del film, è una bella definizione. Sull’Oscar il discorso è più complesso. Chi è che merita un Oscar? Quello è un premio dato a posteriori, dato da tante cose diverse.

Noi ad esempio vincemmo l’Oscar con “Mediterraneo”, miglior film straniero. In quell’anno Mediterraneo vinse su “Lanterne rosse”. Quindi è chiaro che non mi fido troppo di questo premio.

E ci sono molti casi come questo. Detto in poche parole, per vincere un Oscar come miglior film straniero devi far vedere il film, perché i giurati sono tantissimi e tendono a non vedere tutti i film. Per cui vince il film che è stato visto, semplicemente. Devi avere molti soldi per organizzare proiezioni ed eventi. Poi la “La grande bellezza” aveva raccolto, prima, tanti premi di categoria. Si crea quindi una certa attenzione intorno al film, la gente lo va a vedere e lo vota. Sostanzialmente per questo ha vinto. È anche vero che questo film ha tutte le qualità per piacere agli americani che del nostro cinema amano la parte espressionista, amano Fellini e Leone; non amano il minimalismo del nostro cinema. Quindi “La grande bellezza” è fatta proprio per piacere a loro. Non che Sorrentino lo abbia fatto apposta ma il film ha quel tipo di forma.

Industria –  Non c’è una carenza narrativa?

Gabriele Niola – Sì, ha una carenza narrativa molto forte, è vero. Ma in realtà tra tutte le cose che ha fatto Sorrentino –insieme a “L’uomo in più”– è la migliore. Si pone un obiettivo incredibile, quello di raccontare la grande bellezza che cerca Jep Gambardella, da grandissimo dandy. Cioè il massimo dell’aleatorio. Però il modo in cui lui fa coincidere questo suo viaggio interiore con un viaggio esteriore attraverso Roma, con quella che è la grande ed effettiva bellezza che tutti noi conosciamo, io lo trovo favoloso. Sì, è un film che vive di momenti ed è vero che non è narrativo, non vive cioè del suo flusso ma potrebbe essere visto anche tutto scomposto. In tutto ciò ha una componente fondamentale Luca Bigazzi, direttore della fotografia, uno dei più grandi in Italia, un direttore-autore, uno che influisce sui film. Ma questa è una storia grande: “Quarto potere” l’ha fatto Gregg Toland come direttore della fotografia. Quindi è un merito del regista saper scegliere. Servillo ad esempio ha un merito incredibile ne “La grande bellezza”; ma se lo vedi in altri film Servillo è un cavallo che, se non sai frenarlo, si mangia il film e diventa Servillo che fa un personaggio e non il personaggio della storia. Invece Sorrentino riesce a tenere Servillo e lo fa correre davvero bene…

Industria – Nel tuo blog (http://sonovivoenonhopiupaura.blogspot.it/) tu fai critica cinematografica, stroncando grandi attori e grandi registi, proponendo nuove visioni, promuovendo nuovi autori. In un mondo “march ettaro” come il nostro, nel quale gli articoli si trasformano troppo spesso in stucchevoli sviolinate, la domanda è: che senso ha –oggi– fare critica?

Gabriele Niola – Secondo me ha senso oggi più che mai. Perché oggi si guardano sempre più cose. Guardiamo film di tutto il mondo, arrivano molti più film in Italia. E quando hai una massa così grande di cose tra cui scegliere diventa importante che ci sia qualcuno che ti dice cosa guardare e cosa non guardare. In ogni caso, nonostante questa massa, tante cose non arrivano ugualmente, non escono in Italia. E magari sono bellissime. Noi critici, girando per Festival, vediamo questi film.

Il messaggio del critico diventa fondamentale. Il critico in sostanza è un po’ come un Dj che ti dice quali sono le cose belle, poi magari le approfondisci tu, però il Dj te le segnala…

Industria – Tre registi contemporanei sottovalutati?

Gabriele Niola – Due italiani e un americano. Salvatore Mereu: non capisco perché non abbia successo. Fa commedie, sono divertentissime, lui è bravissimo, ha scritto e diretto “Sonetàula” e “Bellas mariposas” che è un film stupendo. Poi Francesco Patierno, un cineasta sfortunatissimo. Fece un film d’esordio fantastico che si chiamava “Pater Familias”. Secondo me è arrivato troppo presto, lui faceva film di crimine molto duri e ambientati a Napoli, però dieci anni fa. Se li avesse fatti adesso sarebbe stata un’altra cosa. Infine Michael Bay che non è certo sottovalutato al botteghino, anzi, ma non viene capito a livello critico. Sono convinto che tra venti o trent’anni sarà considerato come un grandissimo regista, con un occhio incredibile…

Industria – Tre registi contemporanei sopravvalutati?

Gabriele Niola – Alain Guiraudie, francese, il regista de “Lo sconosciuto del lago”. Incredibile quanto sia sopravvalutato.  Poi Andrea Molaioli, regista italiano che ha fatto “La ragazza del lago” e “Il gioiellino”, gode incredibilmente di critiche favorevoli. Il terzo è Pupi Avati, la dimostrazione che se riesci a sopravvivere abbastanza nell’industria diventi “maestro” anche senza aver mai fatto anche solo un film valevole.

Industria – Quali film consiglieresti a un architetto?

Gabriele Niola – “La fonte meravigliosa”, un film degli anni ’40 per certi versi anche ingenuo. Racconta la storia di un architetto moderno –anzi modernissimo, anche un po’ grottesco per quanto è esageratamente moderno– che non viene mai capito, che fatica tantissimo. Ed è un film bellissimo perché è un film sull’atto stesso del creare e sull’istinto di distruzione per quello che si crea.

Poi consiglio tutti i film di 007 di Terence Young, perché sono film che si fondano sugli spazi, sugli interni. In quei film, tutti i personaggi che vengono presentati, soprattutto quelli cattivi, hanno un senso in relazione allo spazio che si abita. Sono cioè gli ambienti in cui sono inseriti che raccontano chi sono i personaggi.

Poi “Agente 007 Missione Goldfinger”, diretto da Guy Hamilton: ci sono luoghi grandissimi, immensi, posti giganteschi, come l’architettura dei regimi in cui tutto deve essere grandissimo. Insomma una fusione fantastica tra spazio e personaggi.

Industria – Adesso una domanda d’architettura. È da poco scomparsa Zaha Hadid, l’archistar irachena. Come abbiamo chiesto anche a Chiara Persia di Radio Rai, cosa pensi della sua architettura? Si tratta di un groviglio caotico di linee kitsch o di una straordinaria rappresentazione radicale e di avanguardia proiettata nel futuro?

Gabriele Niola – Secondo me l’argomento fondamentale è il fatto che Zaha Hadid avesse una personalità incredibile, uno stile personale e un modo tutto suo di intendere l’architettura. A me piace. Io sono di mentalità poco tradizionalista, per cui facilmente sconfino nell’ammirazione di cose blandamente moderniste. Quindi sì, mi conquista molto Zaha Hadid…

Industria – Tu scrivi spesso di videogame. Cinema e videogame riescono sempre a prefigurare nuove realtà e nuovi immaginari di architettura. Che ne pensi?

Gabriele Niola – Sì, cinema e videogame hanno a che fare con gli spazi, in particolare proprio i videogame. Io forse parlerei di videogame e di animazione, di computer grafica come con la Pixar la DreamWorks. Quello che fanno è, tecnicamente, costruire un ambiente 3d inserendoci poi i personaggi, creati da un’altra parte, con la possibilità poi di muoverli e inquadrarli come si vuole. Questo chiaramente porta a un modo diverso di giocare con gli spazi. La Pixar ad esempio ha cambiato letteralmente, in questo modo, quello che si fa anche nel cinema direction. Da questo punto di vista i videogiochi inseguono molto: in tempi recenti sono diventati culturalmente molto forti e potenti però sono forti, al momento, più a livello narrativo, raramente a livello visivo. I videogiochi non fanno ancora un buon uso degli spazi mettendo in relazione personaggi e ambiente, ma fanno un buon uso degli archi narrativi: tu che stai giocando diventi responsabile di ciò che fai…

Industria – Il cinema di fantascienza –da Metropolis a Blade Runner, da Guerre Stellari fino ad arrivare a film meno nobili e più commerciali come Tomorrowland– ha modificato il modo di intendere la realtà, suggerendo spesso agli architetti nuovi linguaggi…

Gabriele Niola – Sì, in realtà è un serpente che si morde la coda perché questi film vengono da architetti o da industrial designer. Syd Mead ad esempio, designer e disegnatore statunitense, ha fatto la metà delle cose più influenti che esistano.  In realtà è una contraddizione strana.

La missione del cinema di fantascienza è quella di creare un nuovo immaginario, personale e unico, avere cioè un’idea di futuro particolare, interessante, di conquista, che non esiste altrove. E questo, dal “Pianeta delle scimmie” del 2001, passa per il design, per gli ambienti. Ha avuto un’impennata nel ’79 con “Alien” che in questo senso è stato fondamentale perché puntava proprio tutto sul design.

Poi con “Blade Runner” il discorso diventava sempre più forte e così via. Adesso non se ne può fare a meno e si fanno anche cose brutte in quest’ottica. In ogni caso l’unico posto in cui possiamo essere semplicemente moderni è il cinema di fantascienza, perché quei film non sono in realtà futuristici, sono semplicemente molto moderni, contemporanei.

Industria – Stiamo entrando nell’era dell’Augmented Reality, una realtà immersiva che ci permetterà di aumentare le nostre percezioni e il nostro controllo all’interno di una metropoli sempre più Smart e perennemente connessa. Questa nuova “Era aumentata”, dopo aver rivoluzionato in modo radicale il mondo dei videogame, rivoluzionerà anche il mondo del cinema e delle arti del XXI secolo?

Gabriele Niola – Secondo me no. Il cinema è cinema, per definizione. E non si modernizza. E se si modernizza diventa un’altra cosa che magari è bellissima ma è pur sempre un’altra cosa e non è più cinema. Il cinema è quella cosa che entri in un luogo, ti chiudono dentro, si spengono le luci e parte qualcosa che dura tra l’ora e mezza e le tre ore. Questo è il cinema. Se facciamo altro, il cinema diventa altro. E magari è stupendo ma non è più cinema.

Sulla realtà aumentata poi sono sia scettico che speranzoso. Sono convinto che qualcosa accadrà ma sono anche convinto che non sarà quello che ci immaginiamo oggi. Negli anni, studiandola, ho capito una cosa sulla tecnologia: alla fine una nuova tecnologia non viene mai usata nella maniera in cui chi la produce vorrebbe che fosse usata. Il modo lo decidono le persone che la ricevono, cominciano a farci delle cose e trovano loro il modo migliore di utilizzarla. Per cui l’Augmented Reality –che è una svolta vera, una cosa seria– probabilmente servirà per molte più cose rispetto a quelle che possiamo immaginare oggi.

Industria – I meccanismi ludici –costruiti attraverso i videogame– contribuiscono a modificare la nostra percezione e quindi la realtà che ci circonda. In futuro riusciremo ancora –indossando i nostri occhiali sempre connessi e interattivi– a distinguere tra realtà e finzione? Tra pareti reali e pareti immaginarie?

Gabriele Niola – Sì, certo che ci riusciremo. Secondo me l’incapacità di distinguere tra vero e finto è più una caratteristica della droga. Questa è chiaramente una fobia classica della fantascienza. Però no, non accadrà. Sarebbe auspicabile certo creare un ibrido tra ciò che esiste, tra ciò è terribile e ciò che non esiste ed è molto più ideale. Però non funziona così. Da questo punto di vista il più fobico di tutti, quello che ha fatto partire la fobia dell’incapacità di distinguere tra reale e immaginario è Philip Dick. Ed era più che altro per le droghe, era quello che lo mandava in paranoia. Poi lui trasferiva tutto nel futuro. Io credo in ogni caso che i meccanismi ludici, in generale, siano una cosa che per fortuna si è molto allargata come fenomeno, e non è più dominio solo dei ragazzini. Ad esempio la “gamification” dei servizi e di internet è un bel passo in avanti. Soprattutto da noi, in Italia, in cui c’è sempre una forte ritrosia nei confronti del nuovo, questo è fondamentale.

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Gabriele Niola – Critico cinematografico e video ludico. Docente all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Collabora con Wired Italia, La Repubblica, MYmovies, BadTaste, Screen International, Fanpage, Radio Città Aperta. Ha lavorato a numerosi Festival di cinema tra cui il Taormina Film Festival e il Festival del Film di Roma.

http://sonovivoenonhopiupaura.blogspot.it/

[Intervista a cura di Marco Maria Sambo]

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