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Dal sublime al subliminale – di Fabio Briguglio

Pare che dal momento in cui ci si sveglia fino a sera inoltrata ogni momento debba ritenersi prezioso, che ogni singolo istante debba essere sfruttato al meglio per non rischiare di perdere posizioni nella scalata alla visibilità.

Smartphone sempre acceso e a portata di palmo, dunque, per essere informati in tempo reale, sempre pronti e performanti.

Ma può essere un parametro il tempo reale? E che ne è stato del tempo interiore?

In un vissuto che si dibatte tra le asperità di una condizione urbana spesso ostile e le continue sollecitazioni mediatiche che il mondo virtuale scaraventa a getto continuo nella quotidianità, i processi cognitivi sono sempre più parcellizzati e declassati ad una reattività immediata, quasi istintiva.

In questo sistema connettivo ibrido, dominato da una comunicazione mediata che annulla le distanze e contemporaneamente innalza barriere nella prossimità delle relazioni, i tempi di risposta sono ormai indipendenti dalla natura e dalla complessità degli stimoli: il plusvalore è nell’immediatezza, che ha scavalcato di gran lunga l’adeguatezza e il senso.

L’idea tramandataci dalla beat generation del viaggio come metafora di un percorso interiore, che trova compiutezza nella percorrenza piuttosto che nel raggiungimento di una meta prefissata, è stata surclassata dalla pratica compulsiva di spostamenti repentini che non necessitano di alcun attraversamento.

Le connessioni a distanza, accuratamente gestite dagli addetti ai lavori della comunicazione, sono date a priori, svuotate di significato.

Anche le arti e l’architettura si sono in parte omologate alle tecnologie dell’informazione e alle strategie di persuasione della pubblicità e, come la pubblicità, piuttosto che il senso e l’appropriatezza, sembrano perseguire lo spiazzamento dello spettatore.

Peccato che l’architettura debba necessariamente porsi il problema della misura e perseguire un fine imprescindibile: quello di elevare il carattere funzionale dello spazio costruito ad un più alto livello di fruizione estetica. In questa ricerca continua di sensata interazione con realtà spaziali, economiche e sociali in continuo divenire, anche il disegno d’architettura, sganciato dalla concretezza di uno specifico progetto, può giocare un ruolo essenziale.

Senza scomodare Piranesi ed evitando di andare troppo a ritroso nel tempo, si può ricordare ad esempio come per Carlo Scarpa il disegno fosse uno strumento d’indagine propositivo e come negli anni Settanta il disegno rappresentasse un vero e proprio concentrato teorico con valore spesso programmatico.

Ora, con la nuova architettura disegnata italiana, pare che la manipolazione grafica si offra alle platee come prodotto finito, con velleità estetiche fini a sé stesse, perfettamente in linea con una “tendenza” che non può dirsi propriamente architettonica, che cavalca il paradosso dello spiazzamento continuo. Una coazione a ripetere di scarti di senso inessenziali e gratuiti, di una provocazione che è divenuta la regola.

Altro che sperimentazione!

Dal sublime al subliminale, insomma: da immagini che cercano la trascendenza al di là del visibile, a immagini che si innestano nel racconto continuo della contemporaneità come “fotogrammi parassiti” per perseguire esclusivamente visibilità.

E l’architettura?

È necessario ritrovare il coraggio dell’appropriatezza, di una rappresentazione funzionale alla comprensione piuttosto che all’autopromozione.

Così come è auspicabile, anche per chi osserva, affrancarsi dalla condizione di passività e riappropriarsi di parte del tempo rubato dalle tecnologie e dalle strategie della comunicazione, per riorganizzarlo in opportunità di maggiore comprensione e capacità critica evitando, se possibile, di ridurre l’intelletto ad un codice binario.

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