Vassily Kandinsky_Castelvecchi 1090x720

Intervista ad Alberto Castelvecchi

Alberto Castelvecchi, professore universitario, fondatore della casa editrice Castelvecchi ed esperto di comunicazione, ci accoglie nella sede dell’Università Luiss Guido Carli di Roma circondato dagli studenti.

Industria – Comunicazione, cultura, innovazione. Come facciamo a rilanciare questo Paese?

Alberto Castelvecchi – Introducendo una mentalità di tipo privatistico. Pensiamo alla gestione immensa dei nostri beni culturali: un conto è vederli solo come oggetto di una visitazione passatista e museale, un conto è valorizzarli in quanto risorsa economica e occupazionale. Sarebbe ad esempio molto importante utilizzare le nuove tecnologie web e social media per valorizzare i nostri beni culturali, costruendo immensi spazi virtuali di valorizzazione in tutte le lingue, in italiano, in giapponese, in russo, in cinese etc. Collegando sostanzialmente la gestione della nostra cultura all’immagine internazionale del nostro Paese in modo organico. Lo facciamo solamente in parte per quanto riguarda il nostro cinema. Ma siamo indietro. La spesa in cultura della Francia è ad esempio superiore a quella dell’Italia, questo perché la Francia considera il sostegno alla cultura un enorme veicolo di moral suasion e di identità nazionale. Noi italiani ci riempiamo la bocca di cultura ma tutto sommato la cultura viene svalutata. Le scuole italiane sono molto deboli, le università sono deboli…

Industria – Non pensi che in Italia le politiche culturali di questi ultimi anni siano state del tutto insufficienti e inadeguate per un Paese come il nostro ricco di storia, arte, architettura, cultura, un Paese pieno di talenti mortificati, ricercatori brillanti costretti a fuggire all’estero eccetera eccetera?

Alberto Castelvecchi  I ricercatori scappano all’estero perché vogliono sostanzialmente coltivare la loro ricerca scientifica, la loro vocazione scientifica e culturale. Il ricercatore va dove lo porta il mercato delle idee e dove il mercato delle idee viene remunerato. Io ho un fratello –Stefano Castelvecchi– che insegna a Cambridge in Inghilterra e si occupa della pubblicazione dell’opera omnia di Rossini. Questo è possibile farlo con finanziamenti che vengono dalla California e dalle Università americane. Lui, tra l’Inghilterra e la California, riesce a pubblicare l’opera omnia di Rossini. Se il nostro Paese sostenesse la pubblicazione dell’opera omnia di Rossini, probabilmente mio fratello lavorerebbe in Italia.

I ricercatori sono cioè come le api intorno ai fiori, vanno dove ci sono fiori più attrattivi. La domanda è: come possiamo costruire dei fiori più attrattivi, da un lato per i visitatori che vengono nel nostro Paese, dall’altro per trattenere le nostre risorse intellettuali? Sicuramente premiando le carriere intellettuali in maniera più forte e investendo, dirottando una parte della spesa pubblica su iniziative di carattere culturale.

Purtroppo molti si riempiono la bocca di queste cose, ma le fanno in pochi. E molto spesso nei beni culturali si è inserita questa mentalità statalista, ci sono grandi staff e grandi organici gestiti in maniera puramente clientelare. Oppure c’è la sub-privatizzazione, anche questa clientelare come è avvenuto a Roma, del mercato delle mostre per garantire occupazione a un personale poco qualificato. Se questo Paese non ritrova la vocazione all’eccellenza e non introduce una mentalità economica privatistica nella fruizione e produzione di idee, questo fenomeno continuerà.

Industria – Come sta l’editoria in Italia? Se la passa male?

Alberto Castelvecchi – Adoperando un vecchio termine usato dagli economisti negli anni ’70 e ’80, l’editoria italiana se la passa male per ragioni collegate a motivi congiunturali,. E l’editoria se la passa male perché negli ultimi anni ha investito tantissimo su una dimensione industriale cartacea. Con un piccolo manipolo di editori, negli anni ’90, facevamo già da Cassandra e dicevamo che l’editoria si sarebbe presto digitalizzata e che dunque il tema non era su che supporto si diffondevano i contenuti ma sul fatto che dovevano esserci i contenuti. Purtroppo gli editori si sono affezionati al supporto e non si sono affezionati ai contenuti. Sostanzialmente, se gli editori investono poco sui contenuti e investono molto sulla propria dimensione e caratura industriale, se la passano male. Non c’è stata quindi una riconversione in senso digitale di una parte dell’editoria. E l’editoria se la passa male per altri due motivi. Per prima cosa, se agli occhi dei giovani io svaluto la cultura e trasformo Umberto Eco in una sorta di soprammobile impagliato e poi la filosofia si studia male, l’architettura si studia male, le scienze vengono comunicate poco e le accademie non fioriscono, le borse di studio non ci sono, i dottorati sono senza borsa, è normale che l’editoria non possa vivere.

Infine l’editoria se la passa male per un fatto di congiuntura ideale: questo è un momento in cui c’è poca tensione ideale; la tensione politica è più volta a un certo tipo di autodilaniazione del ceto dirigente. Non c’è classe dirigente in Italia, c’è una classe dirigente che non è all’altezza delle sfide di un Paese moderno. E un Paese in cui manchi una classe dirigente non può essere un Paese in cui l’editoria se la passa bene.

Il nesso tra produzione editoriale e classi dirigenti è stato sempre un nesso molto forte. È stato così per la grande Einaudi degli anni ’50 – ’60 – ’70; è stato sempre così per tutti i grandi gruppi editoriali. Non è tanto il tema tra editoria ed enti pubblici, ma il rapporto tra editoria e classe dirigente pubblica e privata.

Industria – Come editore hai lanciato grandi scrittori tra cui Aldo Nove, il collettivo Luther Blissett (trasformatosi poi nel collettivo  Wu Ming), Isabella Santacroce e molti altri. Perché in Italia la maggior parte degli editori -oggi- rischia così poco? Colpa della crisi globale? Oppure c’è un problema nuovo rappresentato dal fatto che molti editori non sanno più fare il loro mestiere e quindi non si sporcano le mani cercando nuovi talenti e nuovi contenuti?

Alberto Castelvecchi – In Italia si scrive moltissimo. Io sono fiducioso perché se in Italia si fa bene scouting –la fondamentale attività di individuare i talenti come è sempre stato fatto dagli editori capaci– è possibile individuare e lanciare nuovi talenti. Però gli editori devono imparare a fare più intensamente un lavoro di scouting, andando a cercare ad esempio tra i blogger, andando a cercare tra i ragazzi irregolari, tra quelli che magari fanno una rubrica su YouTube. Le persone scrivono. Quando Umberto Eco ha detto –secondo me sbagliando– che facebook è diventato un sostituto delle chiacchiere da bar, è anche vero che in mezzo a un flusso di chiacchiere da bar io posso ogni tanto individuare dei talenti, delle perle.

Il problema è sempre quello: andare a scavare, sporcandosi le mani e individuando il talento. Questo è il mestiere che gli editori non dovrebbero rinunciare a fare.

Invece molti editori hanno rinunciato a fare questo lavoro perché non hanno vocazione al rischio imprenditoriale. Il secondo aspetto è che una volta individuato il talento lo devi costruire, lo devi produrre come personaggio, come icona, devi in qualche modo fabbricare la comunicazione intorno a quel personaggio. Non basta che una persona sappia scrivere bene. L’editore deve comunicare il talento, deve farsi impresario di quel talento. L’editore oggi assomiglia sempre di più all’impresario di una rockstar, di un attore; deve in qualche modo saper veicolare l’eccellenza. Visto che gli editori italiani sono molto deboli sia nello scouting che nella comunicazione, vanno un po’ a rimorchio di Saviano –che per carità è un ottimo polemista ma un pessimo scrittore– o di personaggi che devono la loro fama di scrittori al fatto che sono magistrati, giornalisti, giornalisti di denuncia come Saviano etc. Ma coltivare il talento della scrittura è un’altra cosa…

Industria – Quindi vince il personaggio sulla scrittura?

Alberto Castelvecchi – Vince la costruzione di icone pubbliche che prescinde dalla qualità della scrittura. Quando gli editori torneranno a fare il loro mestiere che è quello di individuare la qualità del talento e costruire su questo il profilo pubblico dei personaggi, allora sono assolutamente sicuro che sarà possibile costruire altri cinquanta nuovi scrittori italiani. Perché gli scrittori si costruiscono laddove si riesce a creare quel ruolo che gli editori hanno sempre avuto, di mediazione tra la circolazione delle idee e il mercato delle idee. Sono gli editori che devono creare il mercato delle idee. Se gli editori aspettano che i talenti gli caschino tra le braccia, spesso gli cascano tra le braccia persone che sono note, notorie, famose, famigerate in alcuni casi, ma che non sono certo degli scrittori. Scrivere richiede talento nella scrittura ed esiste un talento, un metatalento che consiste nell’identificazione, nella raffinazione, nel ripulire e tirar fuori la gemma dalla miniera. È la differenza tra un diamante grezzo e un diamante lavorato. Se trovi un diamante grezzo per terra, assomiglia a qualsiasi altro sasso. Ma sapere che è un diamante e sapere come raffinarlo è il mestiere dell’editore. Per fare una battuta, gli editori hanno smesso di raffinare gemme e spesso comprano bigiotteria già fatta.

Industria – Tre editori italiani sopravvalutati

Alberto Castelvecchi – Castelvecchi, Castelvecchi e Castelvecchi.

Industria – Tre editori italiani sottovalutati

Alberto Castelvecchi – Castelvecchi, Castelvecchi e Castelvecchi.

Industria – La crisi della carta stampata: li chiudiamo questi giornali cartacei oppure no? Detta in altro modo: c’è un futuro per i quotidiani nazionali oppure sono destinati a chiudere perché non riescono a modernizzarsi?

Alberto Castelvecchi – Io accedo circa dieci volte, quotidianamente, al sito dell’agenzia Ansa e al sito della repubblica.it. Perché io sono alla ricerca di contenuti giornalistici che siano un minimo certificati. Leggo chiaramente anche i blogger, leggo facebook, ma voglio che ci siano persone che sanno fare il mestiere di giornalista e che veicolino notizie provenienti da seri inviati sul campo. Quindi io continuo a cercare contenuti giornalistici seri.

I giornali sopravvivranno se invertiranno l’ordine dei rapporti: in questo momento l’edizione digitale è un di più rispetto all’edizione cartacea. Invece bisogna fare l’opposto: l’edizione cartacea deve diventare un di più rispetto a quella digitale. Questo cambierà anche drammaticamente la struttura occupazionale dei giornali, ma sono convinto che gli investimenti pubblicitari ci saranno laddove le persone continueranno a cliccare cercando pagine di qualità.

Gli editori di giornali devono fare investimenti in qualità professionale e la gente si sposterà sempre di più verso la fruizione digitale. I marchi come La Repubblica, Le Monde, Le Figaro etc. sono garanzia storica di continuità di mestiere e la continuità di mestiere verrà assicurata solo se gli editori faranno gli imprenditori, spostando sempre di più verso il digitale le edizioni cartacee. I giornali di carta -che sono per ora sostenuti dal clientelismo politico- tenderanno a diminuire. Però confesso che io ogni tanto compro anche Le Monde su carta, L’Espresso su carta, perché la lettura cartacea è piacevole quando si è sdraiati a letto. Certamente è una lettura che faccio nel finesettimana o quando sono sdraiato al mare. La lettura su carta diventerà quindi un satellite del digitale. Questo è quello che si vede oggi nel mondo ed è quello che succederà anche in Italia. 

Industria – Quale consiglio daresti a un architetto per uscire dalla drammatica crisi delle libere professioni a cui stiamo assistendo in Italia?

Alberto Castelvecchi – Di mettersi a bottega e utilizzare, come intelligentemente fai anche tu con il tuo gruppo di collaboratori, la dimensione della divulgazione. Un architetto deve essere un buon critico, un buon umanista, deve fare anche attività di elaborazione di parole e di comunicazione, partecipare a convegni, prendere posizione, contribuire a diffondere una cultura delle immagini, pubblicare immagini che gli piacciono. Tutti gli architetti del passato sono stati anche disegnatori, scrittori. Uno dei libri che mi appassionò di più da ragazzo fu un libro sull’architettura e sull’urbanistica di Le Corbusier a Chandigarh, con i suoi disegni e i suoi bozzetti visionari.

Gli architetti del passato sono stati grandi intellettuali. Però se l’architetto si mette a fare solo l’intellettuale e dimentica di appoggiare le mani sul muro per sentire se tiene, dimentica di sentire se un intonaco è stato dato bene, dimentica che la posatura di una piastrella è un’arte millenaria, dimentica il fatto che se devo posare delle piastrelle in un bagno sto facendo un lavoro che deve essere destinato a durare per sempre, allora si perde il fondamentale senso dell’arte e dell’artigianato.

La domanda è: perché le piastrelle ottomane, le piastrelle di Taj Mahal stanno ferme da secoli e poi un piastrellista ci rifà un bagno che dopo due anni si deve rifare? Forse perché si è perso proprio il senso dell’artigianato.

Bisogna quindi rivalutare il nesso tra produzione di immaginario e produzione di immaginario architettonico urbanistico: questo ha poi una ricaduta che in parte va sui film, sulla letteratura, sul fumetto, e in parte produce oggetti materiali. L’architetto ha però il lusso di intersecare oggetti materiali, quindi l’architetto si deve mettere a bottega, in una bottega in cui si facciano cose. Bisogna cominciare anche dalla ristrutturazione di un muro o dalla razionalizzazione di un sistema fognario insieme a un ingegnere. Fare, l’unico modo è recuperare la dimensione del fare. Perché se uno aspetta gli Ordini professionali, le caste etc. in Italia non si va da nessuna parte. Quindi per superare la crisi magari accetterei un lavoro all’estero, in qualche grande azienda di costruzioni; andrei a cercare lavori, anche umili, da un libero professionista; però cercherei sempre di mantenere un nesso molto forte tra il grande immaginario e l’artigianato. Gli architetti hanno sempre fatto così, sono stati a bottega e in cantiere…

Industria – E quale consiglio daresti al Governo italiano per ridare fiato alle libere professioni in Italia?

Alberto Castelvecchi – Il tema italiano è che alcune professioni pubbliche si fanno su concorso e i concorsi sono a volte truccati. Il Governo Renzi ha costruito un authority contro la corruzione, fenomeno gravissimo, ma non esiste un authority contro i concorsi truccati, contro le raccomandazioni. Se io partecipo a qualsiasi tipo di competizione e so in partenza che le regole sono truccate, non posso andare da nessuna parte. Quindi c’è un grande problema e pensare di risolverlo dirigisticamente, con un atto politico, può sembrare naif ma sarebbe in realtà una rivoluzione.

Poi le libere professioni riprendono fiato se riprendono fiato le aziende. E bisogna tornare a fare grandi investimenti in opere pubbliche, in infrastrutture critiche.

Quindi bisogna costruire più Tav, più autostrade, più porti etc. Ovviamente senza trasformare il nostro Paese in una colata di cemento, però ridando alle grandi opere pubbliche la dignità che si meritano, quelle destinate a rimanere per sempre. Le libere professioni vivono anche a ricasco di questi grandi progetti…

Industria – Basterebbe rimettere il progetto di qualità al centro della filiera…

Alberto Castelvecchi – Certo, mettendo i professionisti nelle camere di progettazione delle grandi opere pubbliche. Ad esempio se uno oggi entra alla Stazione Termini di Roma la trova più gradevole di trent’anni fa. Perché la Stazione Termini è gestita da una Società che si chiama Grandi Stazioni che si è affidata a bravi professionisti per rifare il layout di un grande spazio pubblico. Uno spazio che sembra moderno, potresti essere a Parigi. Agli italiani non manca certo il buon gusto per endere fruibile uno spazio che fino a poco tempo fa era fetido e marcio come la Stazione Termini. Si può fare. Il punto è che il professionista va inserito nella cabina di comando e di regia delle cose. Se il professionista lo chiamo per ultimo perché prima devo soddisfare una catena di clientele, di fatto non andrò mai da nessuna parte.

Industria – In questi ultimi anni ti stai occupando di comunicazione culturale, comunicazione politica e public speaking. Cosa pensi della comunicazione di Matteo Renzi? Dopo il Berlusconismo, da un punto di vista comunicazionale, abbiamo un problema di Renzismo?

Alberto Castelvecchi  Sì. Renzi è molto efficace nella produzione di una narrazione. Esattamente come quella berlusconiana, la narrazione di Renzi tende di per sé a configurare, a sostituire la realtà. Però nel fare questo Renzi ha molto spesso degli aspetti di scarsa consistenza. Quando faccio lezione ai miei studenti ovviamente non entro mai nel merito della politica perché un professore deve rimanere imparziale. Però dico sempre ai miei studenti che un comunicatore deve avere una corporeità (la capacità fisica di comunicare), un messaggio e consistenza. La consistenza è quell’autorevolezza che deriva da un aggancio etico e da una reale capacità di trasformazione. La maggior parte dei nostri politici hanno una buona capacità di comunicazione fisica, sui messaggi sono molto efficaci ma spesso sono privi di qualsiasi tipo di consistenza e le narrazioni che producono non hanno nessun radicamento nella realtà. Il problema è che questo si vede perché i fruitori dei messaggi della comunicazione politica sono meno stupidi di quello che si possa pensare. Invece la comunicazione politica continua sostanzialmente a trattare i propri destinatari come se fossero degli stupidi. Sul Renzismo: esattamente come la comunicazione berlusconiana era radicata in un ceto medio che voleva conquistare una mobilità sociale e una visibilità, anche il Renzismo si radica in un ceto medio che vuole in qualche modo costruire l’assalto al potere, un gruppo di quarantenni che vuole cercare di prendere le leve del comando e in parte ci sta riuscendo.

Ma il rischio della comunicazione renziana è che –permettimi di usare un termine latino– dice di essere una comunicazione ad includendum, cioè un progetto che coinvolge tutti gli italiani, ma in realtà è un progetto ad exludendum, come tutti i progetti che nascono da una posizione di minoranza. La comunicazione renziana va bene cioè per i renziani, va bene per la sua squadra di governo, va bene per una serie di giovani che hanno trovato più o meno collocazione e visibilità. Ma è un concerto monocorde in cui chi si azzarda a contraddire il capo viene fatto fuori con una facilità imbarazzante.

Quindi, così come per un certo periodo della sua vita politica Berlusconi ci sembrava assolutamente imbattibile e centrale nel nostro sistema comunicazionale, attualmente Renzi la fa assolutamente da padrone anche perché ha buone capacità mediatiche. Ma avere capacità mediatiche non vuol dire avere capacità comunicativa. Un altro problema è per me rappresentato dal fatto che Renzi è Berlusconi più Twitter. Renzi ha cioè utilizzato i social media in maniera molto più invasiva della destra. La destra non ha una cultura di social media veramente forte. Il movimento grillino ha una forte cultura di social media. Ma sia il movimento grillino che Renzi utilizzano i social media in maniera manipolatoria o naif. In sostanza a me non importa niente che il Presidente del Consiglio o la Boschi pubblichino dieci tweet al giorno, perché sono tweet che hanno una pura funzione di rinnovare un messaggio trionfalistico puramente epidermico. Non si sbaglia certo perché si usa Twitter. Anche i latini parlavano della brevitas, cioè di Twitter, come di una dote retoricamente significativa. Però saper essere brevi non vuol dire essere inconsistenti. Il problema è che Renzi usa le nuove tecnologie di comunicazione con la stessa spregiudicatezza e lo stesso spirito manipolatorio con cui Berlusconi ha utilizzato la Tv. Purtroppo la spregiudicatezza è come le bugie, ha le gambe corte. Prima o poi ti si ritorce contro.

Industria – E i salottini radical chic? Non è arrivato il momento di chiuderli definitivamente e voltare pagina per progettare -in tutti i campi- la parola futuro?

Alberto Castelvecchi – A me sembra che i salottini radical chic non esistano più. I salottini radical chic hanno ad esempio bisogno di case editrici potenti che li sostengano, ma le case editrici potenti non ci sono più. I salottini radical chic hanno bisogno di qualcuno che sia radical e di qualcuno che sia chic. Di Italiani veramente radical, scomparso Marco Pannella, non ce ne sono più.

Non saprei dirti chi è in grado di avere un pensiero radicale oggi in Italia. Avere un pensiero radical vuol dire mettere in discussione l’esistente. E di persone veramente radical, in grado cioè di mettere in discussione le regole del gioco, in Italia ce ne sono davvero poche.

Di persone chic non ce ne sono più, nonostante la presunzione che hanno gli italiani di sapersi vestire bene o di saper mangiare bene. La maggiore parte degli italiani si veste in maniera raccapricciante e racconta di frequentare le cucine dei grandi chef. Però mancano sostanzialmente queste doti spiccate –radical e chic– e ci può essere solamente una parodia dei salottini radical chic. Una parte di antichi salottini radical chic si è trasferita alla presidenza della Camera o nelle istituzioni, acquistando quel tipo di visibilità, di impegno, di seriosità istituzionale che li rende anche meno divertenti. Perché se non altro le terrazze radical chic erano posti in cui potevi trovare un avventuriero, un arrampicatore di salotti che ti suggeriva qualche cosa. Direi quindi che in questo momento il problema non è la presenza di salotti radical chic, ma la mancanza di salotti radical chic. L’unico salotto radical chic è Dago Spia, ma Dago Spia ha perso buona parte della sua radicalità e forse non è mai stato chic.

Industria – Tre consigli ai giovani italiani di talento per trasformare le loro passioni in un mestiere serio e -magari- anche di successo

Alberto Castelvecchi – Il primo consiglio è quello di scegliere solo ed esclusivamente l’attività che ti piace e puntare in maniera assolutamente religiosa, fare un atto di fede sulla coltivazione dell’eccellenza e del talento. Non scegliere quindi un mestiere per motivi di opportunismo o di presunta occupazione ma scegliere l’attività che ci piace senza affidarci alla mediocrità, alla raccomandazione, ma puntare all’eccellenza. Se non si coltiva questo siamo perduti. Il secondo consiglio è mantenere una assoluta apertura di mente e imparare le lingue. I giovani italiani sono ancora troppo catastroficamente monolingui. Quindi coltivare le lingue. La terza cosa è mantenere una forte capacità di progettazione del proprio futuro. Cioè studiare la self efficacy del famoso Albert Bandura.

Imparare quindi a progettare il proprio futuro, imparare a fare life design disegnando la propria vita, esattamente come possiamo fare un business plan su un’azienda o su un progetto architettonico.

Su questo cocluderei con una citazione dei Sex Pistols, una citazione punk. Tutti si ricordano il famoso brano God Save The Queen e tutti si ricordano i versi di attacco di quella canzone: “God save the Queen / The fascist regime”. Ma ci sono due versi –sotto– che sono più importanti: “Don’t be told what you want / Don’t be told what you need”, cioè “Non ti far dire che cosa vuoi” e “Non ti far dire di cosa hai bisogno”. In una parola: non ti far dire da nessuno chi sei. Invece i giovani italiani continuano a fare lo stesso errore che hanno fatto i loro padri, di farsi dire da qualcuno chi sei e cosa vuoi. Questo è quello che tarpa davvero le ali. E quei pochi che hanno davvero molto talento, se non riescono a trovare canali di affermazione qui in Italia, scappano all’estero.

______________________

Alberto Castelvecchi – Docente nell’Università Luiss Guido Carli (Roma, www.luiss.it). Professore Aggiunto nella Faculty di Luiss Business School, dove svolge un intenso lavoro di formatore con aziende del settore Banca, Sanità, Energia,  Automotive, Trasporto Aereo.  Linguista, formatore e consulente di comunicazione per manager, politici, aziende e organizzazioni internazionali. Molto intenso è anche il lavoro con aziende e organizzazioni internazionali, in Europa e in Medio Oriente.  È membro del Board di Vocal Health (www.vocalhealth.eu) e del Comitato Scientifico del Centro Studi “Marco Tullio Cicerone” di Arpino.

[ Intervista a cura di Marco Maria Sambo ]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito, oltre a cookie tecnici che sono usualmente presenti nei siti, può contenere, come buona parte dei siti, cookie di profilazione di terze parti (per esempio da Facebook, Youtube, Google Analytics). Chiudendo questa finestra, dai il tuo consenso alla loro possibile installazione. http://www.aboutcookies.org/

Questo sito, oltre a cookie tecnici che sono usualmente presenti nei siti, può contenere, come buona parte dei siti, cookie di profilazione di terze parti (per esempio da Facebook, Youtube, Google Analytics). Chiudendo questa finestra, dai il tuo consenso alla loro possibile installazione.

Chiudi