Perché il Padiglione Italia “Taking Care” non mi ha convinto – di Saverio Massaro
Ho visitato il Padiglione Italia all’Arsenale durante l’inaugurazione ad opera di TAMassociati, il team composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso. Conoscevo già il tema Taking Care – Progettare per il Bene Comune e avevo alcune aspettative a riguardo che non hanno trovato pieno riscontro.
In questa occasione vorrei mettere in luce alcuni aspetti irrisolti del progetto curatoriale, offrendo uno spunto per una valutazione più accurata, utile probabilmente per chi dovrà ancora visitare il padiglione e per riflettere in generale su come possa incidere la curatela oggi, interrogandoci sul valore di un padiglione nazionale alla Biennale di Venezia.
Considerando i tre aspetti costitutivi del progetto: la curatela, l’allestimento dello spazio e la progettazione grafica, vi sono infatti alcune scelte che hanno inficiato la bontà di alcune idee interessanti che però non sono state adeguatamente messe a sistema e valorizzate.
La densità espressa in generale da Reporting from the front, alle Tese delle Vergini all’Arsenale si interrompe.
Il progetto di allestimento accentua un senso di frammentazione e di dispersione, mentre ci si aggira negli ampi spazi in penombra tra le installazioni e le pareti delle Tese. Si assiste un po’ spaesati ad un racconto didascalico, a bassa intensità narrativa, di un fenomeno sfaccettato e complesso come quello dei beni comuni.
I progettisti affermano di aver puntato molto sullo stile graphic novel, che meglio si presta a veicolare in maniera immediata e comprensibile il tema del padiglione. Questo stile old school, marcatamente vintage, rende la narrazione didascalica e asettica quanto basta tanto da sottrarre dinamismo, energia, da non esaltare la diversità dei casi selezionati e da non far emergere i contrasti (!) insiti nel tema dei beni comuni. Si può appianare tutto questo e, peraltro, presentarlo in uno spento “bianco e nero” (se si tralascia il ruolo marginale assegnato al colore rosso)?
Inoltre sembra un po’ retorico e riduttivo parlare del bene comune solo in relazione alle periferie. D’altronde dopo il buzz mediatico scaturito a seguito delle riflessioni del senatore Renzo Piano sul rammendo delle periferie, ci si aspetta ormai di andare oltre e avere un sguardo più sistemico e globale della città.
Nella prima sezione, Pensare, l’elemento più interessante è sicuramente il diagramma processuale, che poteva avere un peso maggiore nell’economia complessiva dell’allestimento. Stupisce non trovare traccia di soggetti come Labsus – il laboratorio per la sussidiarietà e LabGov, insieme ad altri, impegnati su più fronti nel fornire strumenti e generare condizioni abilitanti per la disseminazione di una cultura progettuale dei beni comuni.
Nella seconda sezione, Incontrare, emerge una criticità che il padiglione Italia condivide con altri padiglioni: far comprendere la fenomenologia dei beni comuni e dei processi partecipati attraverso strumenti canonici di rappresentazione del progetto (fotografie dell’edificio completato, foto di dettaglio, ecc) è evidente che è un limite su cui bisogna interrogarsi. Come trasmettere la processualità su cui si incardina il progetto di un bene comune, al di là dei suoi esiti formali?
Tra i 20 progetti selezionati trovano spazio meritatamente casi come il Parco dei Paduli, EstoNoEsUnSolar e Farm Cultural Park, mi sarei aspettato un riconoscimento anche per progetti come Nevicata14 a Milano o come il caso “borderline” del museo MaaM a Roma.
La chiusura di “Incontrare” è affidata a Italogramma, un progetto fotografico realizzato dal 2005 al 2012 da Fulvio Orsenigo e Alessandra Chemollo che spiazza per la sua eterogeneità e per la sua distribuzione lungo una rampa che conduce il visitatore in un cul-de-sac che lascia più che perplessi.
AGIRE
Infine passiamo alla sezione Agire. Come vanificare una buona idea, condivisibile e auspicata: uscire fuori dalla Biennale e promuovere progetti concreti, per comunità reali in luoghi reali, attraverso piccole architetture mobili, adattabili, facendo convergere le esigenze del mondo no-profit e l’intelligenza progettuale. Un tema di grande interesse che finalmente trova spazio. A riguardo i curatori hanno affermato: “Desideriamo un’architettura che sia motore di nuove visioni, potente mezzo comunicante”. Come non essere d’accordo?!
Ma a giudicare dalla proposte progettuali non è chiaro come questi artefatti, che non brillano di certo per originalità ed espressività, possano generare entusiasmo e portare qualità e bellezza nelle periferie.
A ciò si aggiunge la “foglia di fico” del crowdfunding. Infatti è stato realizzato il sito periferieinazione.it dove è in atto una campagna di raccolta fondi per finanziare i progetti succitati. Anche in questo caso la scelta appare azzeccata e condivisibile. Ma nella realtà si tratta di un elemento marginale, che sarebbe dovuto essere il catalizzatore delle energie dei visitatori. Invece gli viene dato un ruolo da “disclaimer”.
Le potenzialità del crowdfunding se adeguatamente valorizzate, soprattutto dal punto di vista comunicativo e grafico, avrebbero consentito al nostro padiglione nazionale di giocarsi una carta jolly, per mostrare una propria specificità e marcare un cambio di passo anche nei confronti del passato. Ma ciò non avviene. E la conferma arriva quando si cerca di comprendere come raggiungere l’obiettivo dei 360.000€ della campagna di finanziamento. Una raccolta fondi che ha poco a che fare con lo spirito crowd: è elitaria, per pochi, per coloro che potranno donare da 500€ a 15.000€, con rewards non all’altezza della cifra donata. Insomma non sembra affatto uno strumento che chiama a raccolta una grande comunità a “sentire” e prendere parte ad un’iniziativa di portata nazionale.
A tal riguardo non avrebbe potuto che giovare, durante i giorni di opening della Biennale, una collaborazione con il progetto Time for Impact, promosso tra gli altri dall’italiano Gianpiero Venturini. Sarebbe stato un buon modo per fare rete, attivare sinergie e provare insieme a raggiungere un obiettivo concreto.
Insomma più che la Biennale sembra la fiera delle occasioni perse.
Saverio Massaro
Architetto e civic designer, è dottorando di ricerca in Architettura Teorie e Progetto presso l'Università Sapienza di Roma, dove svolge attività didattica nei corsi della prof.ssa Anna Giovannelli. Conduce personali ricerche sulla crisi dei rifiuti nella città contemporanea, oltre a curare progetti partecipativi con le associazioni Urban Experience e Esperimenti Architettonici. Dal 2013 è partner di deltastudio, studio finalista di YAP MAXXI 2016. È membro di nITro e co-editor del periodico online On/Off Magazine. Ha curato pubblicazioni di volumi e articoli su riviste di settore. Ha organizzato dibattiti e conferenze pubblici e tiene regolarmente interventi durante conferenze e convegni.